Caratteristiche
Miele di acacia: è chiaro e fluido ed è il più importante della nostra regione;
miele di tiglio: è un miele cristallizzato con un gradevole aroma;
miele di castagno: è di colore scuro, aromatico e profumato e tende a non cristallizzare;
miele di tarassaco: ha un colore intenso, l’aroma molto marcato e caratteristico e si presenta sempre cristallizzato;
miele di rododendro: è di colore molto chiaro, presenta un aroma delicato e ha una consistenza burrosa.
Tra le varietà multiflorali c’è il miele millefiori di alta montagna: di colore chiaro, che cristallizza finemente con ottime caratteristiche aromatiche.
Da zone particolarmente vocate provengono i seguenti mieli piemontesi: miele di Pragelato: miele millefiori di montagna raccolto durante la piena fioritura del rododendro;
miele della Val Grana: miele monoflorale di Tarassaco, di Robinia e di Castagno, oltre al millefiori;
mieli delle Valli di Lanzo: miele monoflorale di castagno, di tiglio, di acacia, di rododendro, oltre al millefiori di montagna;
miele ossolano: miele di tiglio di castagno, di rododendro e di acacia;
miele biellese: miele di castagno e di acacia della Valle Cervo; miele della Val Sangone: miele di castagno e millefiori di montagna.

Area di produzione
L’allevamento delle api e la produzione di miele è diffusa in tutta la provincia di Cuneo, e assume particolare rilevanza nel Roero e nelle vallate alpine.
Storia
In Piemonte l’“Associazione centrale d’incoraggiamento dell’Apicoltura in Italia” svolse la sua opera di divulgazione soprattutto attraverso i Comizi agrari, tra i quali si distinsero quelli di Savigliano, Ivrea, Domodossola e Torino. Presso quest’ultimo, nel 1872, venne costituita la “Società Apistica di Torino” che aveva come scopo la diffusione dell’apicoltura razionale nel circondario del capoluogo piemontese. In provincia di Cuneo, a Montà, vi è anche la testimonianza dello sviluppo dell’apicoltura razionale tramite le cosiddette “case delle api”, strutture di muratura del 1700-1800 costituite da nicchie per ospitare le famiglie in maniera stanziale. L’antica pratica di spostare gli alveari seguendo il ciclo fenologico delle piante nettarifere, utilizzata già da Egiziani e Romani rispettivamente lungo i corsi del Nilo e del Po, venne considerata, fin dal secolo scorso mezzo valido per accrescere la produttività delle popolose colonie allevate nelle arnie razionali. La lentezza dei mezzi di trasporto e l’inadeguatezza delle soluzioni tecniche limitarono però i trasferimenti che, per molto tempo, dovettero essere effettuati percorrendo brevi distanze e superando difficoltà non indifferenti. Esempi di apicoltura nomade si ebbero soprattutto in alcune vallate alpine, come Val Sesia e Val Chisone dove, dopo aver sfruttato le fioriture primaverili della bassa valle, gli alveari venivano spostati, a dorso di mulo, a quote più elevate nei mesi estivi, ottenendo produzioni differenziate. I dati raccolti in occasione della prima inchiesta apistica nazionale indicano che, agli inizi degli anni Trenta, il fenomeno era ancora circoscritto e, per quanto riguarda il Piemonte, interessava soprattutto la provincia di Cuneo, nella quale il nomadismo veniva effettuato tra la pianura e le vallate alpine.